Jan Fabre, la nostra intervista

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Alla Galleria Mucciaccia di Roma, dal 31 Gennaio fino al 1 Marzo 2025, apre la mostra dell’artista belga Jan Fabre dal titolo Songs of the Canaries, Songs of the Gypsies.

Classe 1958, Fabre è senza dubbio uno dei più grandi innovatori della scena contemporanea nell’arte ma anche nel teatro. Abbiamo avuto l’occasione di incontrarlo e intervistarlo.

Ecco cosa ci ha detto Jan Fabre.

Jan Fabre, foto Magazzino Gallery.

A: Sappiamo che lei è solito portare molte delle sue esperienze personali nelle sue mostre. Anche in questa, ci sono diversi riferimenti alla sua sfera personale. Ad esempio, nella prima parte della mostra, dal titolo Songs of the Canaries, i principali tributi sono a suo fratello Emiel e a Robert Stroud “Birdman di Alcatraz”, un detenuto che durante il suo periodo di prigionia divenne entomologo ed esperto di canarini. Nella seconda parte, Song of Gypsies invece c’è suo figlio insieme alla musica di Django Reinhardt’s, famoso jazzista belga. Crede sia la mostra in cui c’è di più della sua sfera personale?

JF: Si, l’esibizione è divisa in due parti. C’è mio figlio, Django Gennaro Fabre, che ora ha 3 anni ma quando ho realizzato le sculture che lo rappresentano, aveva 5 mesi e mezzo. Ho lavorato su quelle sculture per due anni e mezzo e, proprio grazie a mio figlio, ho imparato la differenza tra intelligenza e coscienza. Il suo nome, Django, è ispirato al grande musicista jazz Django Reinhardt di cui mio padre era grande fan.

A: Rimanendo proprio sulla musica, questa è sicuramente una parte importante del suo lavoro e del suo processo artistico. Può darci qualche consiglio? Chi sono i musicisti o il genere che apprezza di più?

JF: Prima di tutto sono sempre stato grande ammiratore dei Beatles, soprattutto quando ero più giovane; poi David Bowie nei suoi tempi d’oro anche se ancora oggi mi capita di ascoltare suoi album e poi, Jim Morrison. Sono decisamente loro i miei preferiti.

A: Passando all’arte, abbiamo letto esserci Rubens, Van Eyck, Bosch e Rops, che forse le è anche particolarmente vicino per una comunanza di temi, uno so tutti la morte. Ma se dovesse scegliere oggi, degli artisti contemporanei che le piacciono, chi sarebbero? Ci può suggerire dei nomi rilevanti nell’arte contemporanea che, per suo gusto, crede possano fare cose interessanti in un prossimo futuro?

JF: Io sono come un nano nato in una terra di giganti. Voglio dire, Rubens è un genio: quando guardi ai suoi lavori, alla tecnica e ai simboli che usa, per non parlare della luce. Ancora oggi, quando dipingo, guardo e mi ispiro alla luce in Rubens. Prendo ancora ispirazione da Bosch e Van Eyck. Sono i miei più grandi maestri. Per gli artisti contemporanei invece, ho dei fantastici colleghi in Belgio; pur lavorando in maniera molto diversa mi piace molto ad esempio Thierry De Cordier, Berlinde De Bruyckere, Michaël Borremans.


A: Lei è l’unico artista vivente ad essere stato esposto in musei del calibro del Louvre a Parigi o dell’Hermitage di San Pietroburgo. Se dovesse pensare a un altro museo in cui le piacerebbe esporre, quale sarebbe? Ne ha uno preferito? 

JF: C’è questo museo dal quale sono stato veramente colpito quando ero più giovane, il Museo del Cairo in Egitto. Credo che la mia arte possa fondersi bene con il museo del Cairo, ad esempio quando osservi gli antichi affreschi, molti di questi parlano di trascendenza: tutto in quell’arte gira attorno alle vibrazioni e all’energia. In più io sono appassionato di entomologia, colleziono scarabei e, lo scarabeo, era un simbolo fondamentale nella scultura egizia. Sarebbe un sogno per me creare un dialogo tra quel museo e le mie opere.

A: Nella sua arte, in qualche modo torna sempre il corpo in tutte le sue declinazioni. In questo caso in mostra c’è il cervello. Perché ha scelto proprio questo organo, è connesso all’energia di cui ci parlava prima? 

JF: Il cervello è la parte più importante del corpo umano. Quando non c’è l’immaginazione non c’è conoscenza. Il canarino invece funge da osservatore ed esploratore, non a caso veniva utilizzato dai minatori in Belgio per scendere nelle miniere, se il canarino sveniva era segno di mancanza d’ossigeno e i minatori sapevano di dover risalire in superficie.


A: Lei ha spesso sottolineato quanto sia fondamentale il concetto di bellezza nella sua arte, bellezza che in diverse interviste ha descritto come una farfalla. Se la si tocca, c’è il rischio di romperla. Ce ne vuole parlare meglio?

JF: Si, ho usato spesso questa metafora. La bellezza è come una farfalla, se la tocchi si rompe. È un po’ come pensare all’intelligenza e alla coscienza. Viviamo al tempo dell’intelligenza artificiale e dell’informazione, ma in questo modo non si ha la coscienza ed è la coscienza che ci da’ un valore, ci rende sensibili, gelosi, vivi.

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