Giuditta e Oloferne

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La Storia

La storia di Giuditta e Oloferne ha da sempre destato molto fascino ed interesse, soprattutto tra gli artisti di ogni epoca e corrente, i quali hanno dato una propria interpretazione a questa singolare e struggente vicenda. La storia viene raccontata nel Libro di Giuditta nella Bibbia cristiana, non Ebraica, e si apre con il ritratto militare del Re degli Assiri. Quest’ultimo aspirava alla conquista delle terre mediterranee (dal Libano al basso Egitto) e, avendo ricevuto il rifiuto da parte dei popoli ad unirsi a lui, volle vendicarsi inviando un’armata capitanata da Oloferne, generale dell’esercito. Oloferne si mostrò fin da subito superbo e blasfemo e qui compare per la prima volta Giuditta, ricca vedova discendente di Israele:

“voglio compiere un’impresa che passerà di generazione in generazione ai figli del nostro popolo. ” (8, 32-34). 

Giuditta uscì dalla città e si diresse verso l’accampamento dei Babilonesi e Oloferne, ammaliato dalla sua bellezza, le preparò un banchetto privato, si ubriacò e si addormentò. Fu allora che Giuditta prese la spada e con tutta la sua forza gli colpì due volte il collo staccandogli la testa. Riposta la testa nella bisaccia, fuggì liberamente dal campo militare con la serva e giunse in città mostrando il suo trofeo; successivamente, venne esposta costringendo alla fuga il popolo babilonese.

L’interpretazione degli artisti

 
 

Da questo racconto ne deriva l’iconografia delle opere più celebri della storia dell’arte: da Caravaggio a Artemisia Gentileschi, da Michelangelo a Klimt. La sua prima rappresentazione risale a Donatello, nel 1455 circa, due anni dopo la guerra turco – ottomana condotta dalla Chiesa per sconfiggere gli “infedeli” Turchi. L’iconografia ha una chiara allusione alla sconfitta dell’impero Turco per mano della Chiesa, come Giuditta uccise Oloferne e pose fine alle sofferenze. Nell’opera di Donatello si può osservare lo sguardo pensieroso di Giuditta, quasi come se la violenza sia frutto di un destino tragico che è al di sopra della semplice volontà dei singoli. 

 
Donatello, Giuditta e Oloferne, 1452, Palazzo Vecchio, Firenze (Dettaglio Giuditta)

Solo nel XVII secolo le sue raffigurazioni si fanno addirittura feroci e sulle tele fa la sua apparizione con l’atto della decapitazione. Caravaggio fu il primo a concentrare l’attenzione sulla scena principale in modo cruente e sanguinario, cogliendola nel momento stesso della feroce esecuzione. Quando Caravaggio lavora a questa tela, oggi ammirabile presso Palazzo Barberini, siamo nel pieno della Controriforma: la chiesa cristiana sta cercando di modificare le sue priorità e vuole riavvicinarsi ai fedeli per sconfiggere la minaccia dei Protestanti. Non solo, Caravaggio utilizzò l’iconografia di Oloferne per autoritrarsi a testimonianza della sua paura costante verso la morte. Infatti, era noto a tutti che Caravaggio conducesse una vita movimentata e pericolosa, frequentando bordelli, ubriacandosi e causando risse. La sua era una vera e propria fissazione, tanto è vero che in più occasioni veste i panni del personaggio morto o ucciso.

Michelangelo Merisi detto Caravaggio, Giuditta e Oloferne, 1599 ca.,
Olio su tela, Palazzo Barberini

Anche nel caso dell’artista Artemisia Gentileschi ritroviamo una situazione simile: dopo aver subito uno stupro per mano di Agostino Tassi, noto artista del panorama romano nonché amico del padre Orazio, nutriva sentimenti di rabbia e frustrazione che confluirono nella sua opera Giuditta e Oloferne, esposta presso il Museo di Capodimonte a Napoli, a sostegno della rappresentazione carica di ira e passione della protagonista.

Artemisia Gentileschi, Giuditta e Oloferne, Olio su Tela, 1612 – 13, Museo e Real Bosco di Capodimonte

Fino a questo momento la vicenda era stata rappresentata o nel momento precedente o, più frequentemente, dopo la decapitazione, che sancisce la vera sconfitta del potente. Ogni interpretazione combina l’estremo sforzo fisico con il turbamento emotivo a cui Giuditta è stata sottoposta, che vengono esaltate attraverso espressioni di fierezza ed orgoglio, come si evince anche dalle opere di Klimt, noto esaltatore della figura femminile. Ogni artista trattò il tema con estremo cinismo: Giuditta rappresenta l’allegoria della lotta patriottica in difesa del proprio territorio ed è in grado di proteggere la città dall’invasore politico e religioso.  Alcuni leggono nella storia una specie di vendetta delle donne contro gli uomini qui rappresentati da Oloferne: prepotenti, viziosi e irrispettose verso quest’ultime. 

 
 
Giambattista Piazzetta, Giuditta e Oloferne, 1715 – 20, Olio su tela, Galleria Corsini
 
Vincenzo Catena, Giuditta e Oloferne, 1520, Olio su Tela,
Fondazione Querini Stampalia

 

Inoltre, a seconda degli artisti, l’arma brandita da Giuditta varia dal coltellaccio (Mantegna) alla sciabola corta (Donatello), dalla spada (Caravaggio) fino allo spadone (Artemisia Gentileschi) e alla meno realistica spada lunga; nelle opere di Giambattista Piazzetta, presso la Galleria Corsini, e Vincenzo Catena, della Fondazione Querini Stampalia, vediamo chiaramente lo spadone. Giuditta viene identificata con la Giustizia (la spada lunga era l’arma tipica del boia nelle esecuzioni capitali); al tempo stesso Giuditta è simbolo della potenza del Signore, di vittoria del debole contro il forte, in analogia all’episodio di Davide contro Golia. Nei primi del Novecento Giuditta diventa un’icona del decadentismo, simbolo della donna dominatrice cui l’uomo soggiace.

Sicuramente la figura di Giuditta ha accompagnato, nel corso della storia, diverse interpretazioni artistiche in riferimento al periodo storico, religioso e a vicende personali che hanno coinvolto gli artisti stessi: è stata il personaggio cardine di rivolte, prese di potere e invasioni politiche e religiose, divenendone figura allegorica per antonomasia.

 
 
Gustav Klimt, Giuditta, 1909, Galleria internazionale d’arte moderna di Venezia

 

 
Gustav Klimt, Giuditta, 1901, Galleria d’arte di Vienna Belvedere

 

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